lunedì 31 dicembre 2007

The National

Arrivati a questo punto dell’anno pare che sia d’obbligo tirare le somme e stilare la classifica degli album più ascoltati dell’anno. Questo almeno sembra essere la tendenza tra i blogger che ne sanno a pacchi di musica. Lungi dal volermi unire al coro e stilare anche io la mia bella graduatoria dei cd più masticati – se non altro per la mediocre cultura in questo campo che dimostro – mi limito a ricordare tra queste righe un album che più di tutti mi è ronzato nelle orecchie negli ultimi mesi.
Erano i primissimi giorni di ottobre quando presi la decisione di portarmi l’i-pod in viaggio in Indocina. Ci pensai a lungo se portare il riproduttore di suoni o no, dal momento che abitualmente amo assaporare anche con le recchie i rumori dei luoghi che visito per la prima volta, evitando quindi di isolarmi.
Però c’erano quelle 12 ore di volo fino a Singapore e forse ci sarebbero stati anche noiosi – in realtà in quel viaggio non vi fu nulla da potersi definire noioso – trasferimenti in autobus, durante i quali magari avrei potuto lasciare scorrere le immagini del paesaggio nei miei occhi, accompagnate da una dolce colonna sonora.
Cercavo materiale con il quale riempire i 2GB della memoria, e a dire il vero cercavo qualcosa di nuovo, qualcosa di adatto per l’occasione, che fosse concepito proprio per quel mio viaggio. Mi rivolsi ad un caro amico, uno di quelli che di musica ne sanno a pacchi, che accolse volentieri la richiesta di trovare qualcosa di adatto a me e alla situazione.
Fu così che durante il tragitto per andare pranzo in un luogo particolare per una occasione particolare, mi fece sentire la traccia Fake Empire dei The National dal freschissimo album Boxer. La voce di Matt Berninger mi ricordava quella di Nick Cave che con i Bad Seeds cantava Where The Wild Roses Grow, anche se per fortuna il testo non è altrettanto drammatico (se non sbaglio apparteneva in effetti all’ album intitolato Murder Ballads).
Fake Empire
è associata alla primissima parte di viaggio, quando durante il trasferimento in treno da Stansted a Liverpool Street guardavo dal finestrino la campagna britannica con le cuffie nelle recie.
La dolcissima Green Gloves è per me la colonna sonora del viaggio col pulmino anni 50 tra le verdissime colline del Laos, tra Vang Vieng e Luang Prabang.
La dinamica Slow Show rappresenta nel mio immaginario un treno che al ritmo della pennata della chitarra macina miglia e miglia in polverose strade in un viaggio senza fine.

Nelle 4 settimane di viaggio e nelle successive l’album Boxer è stato mandato in loop decine di volte, e ogni volta le emozioni si rinnovavano.
Danke, Diego.



giovedì 27 dicembre 2007

Tradimenti necessari

L’ho detto e ora lo faccio. Riprendo il titolo e il tema di un post amico che mi è molto piaciuto. I “tradimenti necessari” sono un’ azione di coraggio verso noi stessi. Quando abbandoniamo ciò che ci è noto, ciò che conosciamo, e che magari amiamo e che con ogni probabilità fa parte della nostra quotidianità, compiamo un gesto estremamente coraggioso. La tranquillità delle cose, oltre che essere il titolo di un film di qualche anno fa, è ciò che, in fondo ricerchiamo. Perché, confesso, mi fa piacere essere circondato da cose che mi appartengono, mi mettono – appunto – tranquillità. So di potere contare su di loro, nel momento del bisogno. Per definizione, esse non ci danno niente di nuovo. Ci danno le solite emozioni, belle magari, ma le solite. E se volessimo altro? Dovremmo tradire quelle cose per altre cose (uff, che brutta parola). Eccolo qui il tradimento. Lasciamo il noto per l’ignoto. Giusto o sbagliato che sia, questo ci porta ad un cambiamento nel nostro equilibrio. É vero che “Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi…” come recita Marquez? Forse sì. E allora cambiamo.
Durante il mio viaggio ho abbandonato indumenti, vecchi vestiti ai quali ero affezionato. Erano logori, ma avevo un ricordo associato ad ognuno di loro. Ora che li ho abbandonati è per caso svanito anche il ricordo? No. Però a me piace (anzi, a dire il vero non mi piace più tanto…) associare il ricordo – concetto astratto per sua natura - ad un oggetto – tangibile, concreto per sua natura. Lasciando i vecchi vestiti ne ho presi di nuovi. Altre emozioni, altri ricordi. Ed ecco che, magicamente, la giostra riprende a girare…

sabato 15 dicembre 2007

Il Pianeta solitario

Ho pensato che sarebbe una cosa bella studiare bene le guide prima di partire per un viaggio che ti porterà a visitare luoghi sconosciuti. Non voglio dire di fare quello che la guida dice. Al contrario. sarebbe opportuno NON fare quello che la guida dice e fare quello che la guida NON dice. É stato imbarazzante, per esempio, ritrovarsi ad Hoi An, nel cuore del Vietnam e, con in testa l’itinerario proposto dalla Lonely, incrociare un gruppo di italiani (per fortuna rarissimi in Vietnam) e sentire una voce che diceva “Ecco, la guida dice di iniziare il tour proprio da qui”. Che tristezza. A Saigon sai che se vai verso Pham Ngu Lao, ci troverai tutti i backpackers con in mano la Lonely. A De Tham puoi acquistare per 4 dollari le solite guide fotocopiate di tutto il continente. Anche i viaggi finiscono per essere degli omogeneizzati, figli di quella parola che tanto temiamo ma che oramai ci entrata dentro e ci fa fare tutti le stesse cose. Sarebbe bello se ogni viaggiatore avesse a disposizione le riflessioni, i pensieri, le esperienze di altri viaggiatori, ma randomly, senza un riferimento. Magari basterebbe usare con coscienza lo strumento informazione. Consiglio che, naturalmente, vale anche - e soprattutto - nella vita.


venerdì 30 novembre 2007

Su quale sponda la felicità?

Cerchi l’America e scopri le Indie. Ti aspetti il Vietnam e invece trovi il Laos. Nell’ottica di “attendere l’inatteso” direi che ci sta tutta, ed è un piacere accorgersi, che, al di là del Mekong, esiste un luogo che non è un posto ma uno stato d’animo: il Laos.
Tra i paese visitati è sicuramente questo che maggiormente mi ha colpito. Bambini che salutano con la manina il nostro minibus anni ’50 che corre lungo le tortuose e polverose strade degli altipiani, donne che stendono i panni appena lavati alla fontanella, uomini che si caricano il pesante bilanciere in spalla e portano alla capanna la legna per il fuoco. Ovunque sorrisi. Ma perché dovrebbe sorridere questo popolo con cui il fato è stato avaro – o forse sono proprio stati i Laotiani a negarsi il famigerato
progresso – e in tal caso ancora maggiore sarebbe la mia stima nei loro confronti? Pare infatti che l’omaggio di un paese occidentale (l’Australia, la cui amministrazione ha pensato bene di regalare al Laos il Friendship Bridge – unico ponte ad unire Thailandia e Laos attraverso il Mekong, almeno fino a qualche mese fa) non fosse affatto gradito ai locali. Tale opera civile aveva lo scopo non tanto di avvicinare la piccola Repubblica Popolare Democratica al mondo, quanto quello di avvicinare il mondo al Laos, che in effetti di quel enorme varco verso la presunta ricchezza economica avrebbe volentieri fatto a meno. Forse è meglio lasciare parlare le immagini…






giovedì 15 novembre 2007

Attendere l'inatteso

Il mio passaporto, intonso fino all'arrivo del visto per il Vietnam di due mesi fa, è ora un bellissmo patchwork di firme e timbri colorati, così come si vede nella foto. Quel passaporto, passato tra le mani di tante persone in divisa, è ora di nuovo "al sicuro" tra le mie, in Europa.
Immagini nella testa, tante. Pensieri, tanti. Ordine, poco. Qualche lume, però, sì. Ho trovato risposte a domande che non mi ero finora posto e non ho trovato risposte a quelle che mi ero fatto. Il che, per me, è davvero un successo.
"Tradimenti necessari". Ho in mente questa bella espressione, ripresa da un blog amico. Ai "Tradimenti necessari" pensavo di dedicare un apposto spazio tra queste righe, prima o poi. Il rientro mi impone una non richiesta esigenza di ordine, di to-do list, di organizzazione, come se fosse impossibile, al mondo d'oggi (anzi, mi verrebbe da dire "al mondo occidentale d'oggi") fare qualcosa che non sia pianificato e previsto. Invece mi attira l' attendere l' inatteso, ma probabilmente non sono ancora pronto. O forse sì...


giovedì 11 ottobre 2007

Let the show begin

Per puro caso decisi pochissimi giorni fa di inserire nel lettore cd dell’auto con la quale – sopraggiunto l’autunno – mi reco al lavoro, il cd di Beth Gibbons and Rustin Man. L’interesse iniziale per tale album fu esclusivamente frutto del collegamento Beth Gibbons-Portishead, e tutto ciò che ne deriva: Bristol, Massive Attack, Tricky e compagnia bella. Mi rendo conto che forse la sinapsi che collega tali delicati ed autonomi argomenti meriterebbe una discussione apposita, ma tant’è. Bhè tale cd fu presto inserito nella custodia e abbastanza rapidamente dimenticato.Ebbene – dicevo - proprio ieri lo inserii nell’apposita fessura e mai come in questo episodio trovai un sincronismo tra la sensibilità dell’album ed il mio stato d’animo di viaggiatore in procinto di partire, inteso nel suo più ampio significato possibile. La traccia numero tre si intitola Show ed è spesso stata usata come ouverture per concerti, spettacoli ed eventi di varia entità e portata. É la musica ideale che accompagnerà la mia partenza, un delicato e sensibile auspicio per uno spettacolo che sta per iniziare, e del quale non conosco il programma nè tantomeno il finale…
É il mio modo per salutare...
And now, let the show begin.

lunedì 1 ottobre 2007

Vietnam

Vietnam Vietnam ho in mente questa parola Vietnam Vietnam non riesco a non pensarci Vietnam Vietnam. Ormai è chiaro che il paese che meglio vorrò vistare nel mio pellegrinaggio in Indocina sarà proprio lui. Una storia affascinante, in continua lotta per l'indipendenza, contro i Cinesi, i Giapponesi, i Francesi, gli Americani... Un futuro radioso (è il paese con il più alto tasso di crescita economica dell'area), dove socialismo e libero mercato vanno a braccetto in una sorta di imitazione della Cina (per una volta non sono i Cinesi a copiare...) Un popolo gentile, discreto, che però non hai mai abbassato la testa contro nessuno. Sarò ad Hanoi, capitale del Paese e dell'allora Vietnam del nord, guidato per anni da Ho Chi Minh, eroe nazionale, che non è vissuto abbastanza per vedere il Paese unito. Fino a Saigon, ribattezzata Ho Chi Minh City dopo che, nel 1975, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) riconquistò la città. Le letture di Oriana Fallaci (Niente e così sia, diario del primo anno in Vietnam da inviata - bellissimo romanzo) e di Tiziano Terzani (Pelle di Leopardo, altro delicato resoconto dell' ultima guerra) sono state essenziali per alimentare la curiosità nei confronti di un paese e di un popolo dalle enormi ricchezze.

sabato 22 settembre 2007

Lentamente


Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle
che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno
di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi e' infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza
per l'incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette
almeno una volta nella vita
di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o
della pioggia incessante.

Lentamente muore
chi abbandona un progetto
prima di iniziarlo,
chi non fa domande
sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde
quando gli chiedono
qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo
di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà
al raggiungimento
di una splendida felicita'.



giovedì 13 settembre 2007

Ebbene...

Ho deciso. Parto. Sì vado via. No non cambio idea. Parto. No. Non fare quella faccia. Ho detto che lo faccio. E lo faccio. Parto. Un mese. Tra ottobre e novembre. Indocina. ThailandiaLaosCambogiaVietnam, basically. No agencies, just backpacking. Come dici? Il lavoro? L'ho detto tre mesi fa. Alla naturale richiesta di chiarimento, ho risposto con questa mail:


"Ciao,

spero che queste righe che sto per scriverti possano descrivere in una maniera più esauriente - di quanto non possa essere un breve dialogo - la mia scelta di cogliere una opportunità e di saltare su un treno che difficilmente mi passerà vicino in futuro. Mi rendo conto che la mia decisione possa apparire - forse -inopportuna nei modi quanto nei tempi, so bene che questo autunno sarà una stagione calda per i pc della tua società. Tuttavia credo che qualsiasi decisione sia quella giusta, se chi la prende lo fa con coscienza e convinzione. Io non credo di essere un “in-cosciente”, anzi ho sempre pensato di avere un rapporto fin troppo razionale con la realtà e questo talvolta mi ha impedito di seguire i miei desideri fino in fondo. Mantenere la lucidità quel tanto che basta per non lasciarsi andare ad un impulso emotivo a volte può comportare la aprioristica esclusione di una emozione,e questo è tanto più vero quanto più l'educazione ti porta ad agire in quel modo mentre tu tuttavia continui a percepire dentro di te bisogni non soddisfatti e forse anche sistematicamente ignorati. E nemmeno ritengo di non essere sufficiente convinto, se è vero che reputo questo bisogno prioritario rispetto a ciò che comunemente si ritene debba esserlo. La sottile differenza che passa tra quello di cui ho bisogno e quello che voglio evidenzia, in me, una esigenza di pulizia interiore. Amo la seguente frase e la voglio condividere con te,XXX, ora: “Il vero viaggio consiste non nel vedere nuovi luoghi, ma nel vedere con nuovi occhi”. [...]. Certo, può anche darsi che il mio viaggio non mi porti a raggiungere lo scopo. Però credo che valga la pena provare, e lottare per un principio nel quale si crede. Vado per provare con mano e per vedere con i miei occhi che cosa sia la povertà, per capire cosa significhi non avere di che sfamare i propri figli, per scoprire dove si trova la bellezza delle cose. E tornerò con un bagaglio umano senza prezzo.[...]

Con stima,

Loaded"


venerdì 31 agosto 2007

Ritorno

Il ritorno dalle ferie comporta la consapevolezza del tempo chefugge. Giusto pochi giorni fa eri distante centinaia - magari migliaia- di chilometri, magari a bordo di una barca, magari all' àncora in un'isola della Grecia... ed ora forse sei qui, seduto da solo nel tuo ufficio, davanti al tuo pc, lo sciabordio dell' acqua sullo scafo e il rumore del vento tra gli alberi è stato sostiuito dal ronzio della ventola del pc e da quello del condizionatore...
Prima di partire ho caricato per bene il mio i-pod, con la buona intenzione di ascoltare anche quegli album che - diciamola tutta - non è che ti facciano impazzire, ma dato che ce li hai, ecco, forse magari in vacanza ti viene voglia di ascoltarli, per riuscire a cogliere quelle sfumature che altrimenti perdi, per poterlo insomma apprezzare di più...
Macchè.
Io andavo in loop con i Killers - in particolare bazzicavo tra Mr Brightside e Everything Will Be Alright - con i Fischerspooner e i Dntel, e finivo sempre che mi addormentavo nella mia cabina con le cuffie nelle orecchie e il relativo filo tutto sbavato...

martedì 14 agosto 2007

Partenza

Una partenza è sempre una partenza e quando qualcuno che abbiamo vicino parte vorremo andare anche noi. Soprattutto se chi parte lo fa per farsi 6 giorni di mare in tempesta, dalla Manica all'Irlanda e ritorno, in un solo botto, tutto d'un fiato. E perchè poi? Per la gloria, per il curriculum? Giammai. Lo si fa perchè si cerca. Si cerca qualcosa, qualcuno, non sai bene cosa ma ti rendo conto di stare cercando. La stessa cosa che potresti fare nella tua stanza, mentre con la mente viaggi ascoltando una canzone, oppure leggendo un libro e immedesimandoti nei personaggi. Si soffre, in mare, si vomita anche l'anima, a volte, il mare sa essere inclemente. Potresti anche odiarlo, il mare, perfino tu che ci navighi fin da bambino. E in momenti come quello davvero solo Dio sa quanto l'ho odiato. Però andare per mare è, oggi, ancora l'unico modo per viaggiare davvero, per andare davvero dove vuoi, senza wizard che ti indicano la strada. Sembra strano ma se sei bravo, oggi riesci ancora a navigare con lo spirito dei nostri antenati. Hai davanti a te solo acqua, scegli tu dove andare. Hai infinte rotte da percorrere, infiniti venti da sfruttare, infiniti porti dove rifiugiarti quando il mare monta. Per me è la metafora perfetta della vita: hai davanti il tuo sterminato mare, scegli tu che vita vuoi vivere.

venerdì 10 agosto 2007

The Brit way

Alcune considerazioni rigorosamente alla rinfusa relative all' ultimo dei miei temporanei trasferimenti in UK.

- L'erba del vicino è sempre la più verde, soprattutto se il tuo vicino di casa si chiama Trinity College oppure King's College. Cambridge è un enorme prato sul quale spuntano come funghi quaellà università che hanno ospitato i più grandi scienziati della terra. E il prato è vero, non è sintetico, ho toccato con mano...
-Il Solent è il luogo migliore per veleggiare. Il tratto di mare tra Portsmouth e la famosa isola di Wight è un turbinio di attività, soprattutto se hai modo di farti un giro un barca a vela durante la Cowes Week, che è la regata più antica della storia. E con 850 barche iscritte anche la più affollata del nord Europa, direi (superata solo dalla Barcolana di Trieste, ma siamo in Mediterraneo....). Tra l'altro è qui che nasce la vela nel senso che intediamo noi. Non a caso la Coppa America ha visto la sua prima edizione qui: il percorso era la circumnavigazione dell' isola di Wight.
-Non capisco perchè si incaponiscano a tenere la sinistra anche nei percorsi pedonali all'interno della tube (con tanto di cartello keep left), quando poi ti mettono le scale mobili a destra...
-Non capisco perchè si ostinino ad usare il doppio rubinetto, hot e cold... mettere un miscelatore pare brutto?
-Sono i piccoli gesti dai quali capisci la civiltà delle persone, quando tutte le cassiere ti sorridono dandoti il resto (e non mi pareva di avere nessuna macchia sulla camicia...) e quando tutti si scusano se per caso ti intralciano involontariamente il cammino.
-Mi fa impazzire vedere - per pranzo - tutti i giovani che lavorano nella city mangiarsi uno spuntino stando seduti sul prato di uno dei numerosi parchi cittadini, in maniera molto ordniata e composta...

lunedì 16 luglio 2007

Caffè

«Ciao»
«Ciao»
«Allora te ne vai?»
«Sì. Vado via»
«Ma tornerai?»
«No, non credo»
«Perché no?»
«Non posso spiegarti...»
«Perché non puoi?»
«Perché non posso»
«...»
«...»
«Solo che non capisco... quelle lunghe telefonate...»
«Eh»
«A che sono servite? Guarda che bastava molto meno per raggiungere lo scopo...»
«Sì, ma non ti avrei conosciuto così come ti ho conosciuto»
«Ah. Dal mio punto di vista è stata la mia rovina, allora...»
«...»
«E ti porti via anche il caffé?»
«Sì. Anche il caffé»
«Mi dispiace, sai, in fondo stavo bene con te»
«Lo so»
«...»
«Lo so ma devo andare»
«Perché dici che te ne devi andare?»
«Perché devi sempre cercare un perché a tutto?»
«Lo sai, sono fatta così. É solo che in questo caso non trovo nessun perché...»
«Pace»
«Ma vorrei capire»
«No. Non c’è niente da capire»
«Allora te ne vai...»
«Sì»
«Resterai solo un ricordo...»
«Forse»
«Sì. Di te mi resterà allora solo un ricordo. E una sensazione»
«Che sensazione?»
«Non saprei dire di preciso...»
«Uhm»
«É una sensazione un po’ dolce e un po’ amara»
«In che senso?»
«Dolce perché in fondo provavo una sensazione di benessere. Una consapevolezza di me diversa, più intensa e forse più genuina»
«E amaro perché?»
«Amaro perché il dolce è in questo modo disperso, non utilizzato. Come raccontare una poesia ad un albero, come accarezzare l’acqua... l’albero e l’acqua non godono delle tue attenzioni....il tuo frutto d’amore non viene colto, ma lasciato alle intemperie. Alla fine appassisce. Ed è un peccato...»
«Sì, un peccato»
«Dimmi una cosa, forse tu la sai...»
«Cosa»
«Ma secondo te abbiamo dei bonus?»
«Cosa intendi dire?»
«Quante poesie posso raccontare all’albero, quante carezze posso fare all’acqua, prima che qualcuno le colga? C’è un limite massimo? Che so, posso fare solo 14 carezze e dire 26 poesie, dopodichè basta. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Fine della storia. Se nessuno coglie le finite poesie che ci sono in te, allora ti saluto. É così? Oppure possiamo continuare a sperare?»
«Questo io non lo so. Questo non lo sa nessuno»
«Ah. Non lo sai»
«No, nessuno lo sa»
«...»
«...»
«Allora te ne vai...»
«Sì»
«E ti porti via anche il caffé?»
«Sì. Anche il caffé»
«Allora ciao...»
«Addio»

giovedì 28 giugno 2007

Capitan Bianchetti

C’era un tempo in cui potevi vedere una piccola barca a vela, di nome Penelope, veleggiare placidamente al largo della costa romagnola, più precisamente tra Cervia e Cesenatico, alla mattina, molto presto. Diciamo circa 25 anni fa. Su quella barca stava un ragazzo, anzi un ragazzino, che andava a scuola. La mattina presto. Da solo. Da Cervia a Cesenatico. Lo stesso ragazzino, oramai in età da militare, si sparava, tutti i giorni, da Porto Garibaldi a Cervia, casa sua, sempre in barca. Diciamo sui 20 anni fa. Finito il suo turno, invece di prendere l’auto come tutti gli altri marinai di leva, e correre a casa, lui metteva piede sulla sua barchetta a vela, ormeggiata in banchina. Ed era già a casa. Poi, arrivare a Cervia in realtà era un pura formalità. Qualche anno più tardi, potevi vederlo, sempre lui, magari fermo in porto – ma sempre con i piedi su un puledro del mare -Qqq intento a fare qualcosa, e con la testa sempre altrove, su altre acque, pianificando regate oppure organizzando incontri con possibili sponsor, o ancora racimolando equipaggi improvvisati per prendere parte a qualche regatina in Adriatico.
Ricordo come se fosse ieri, la volta che lo conobbi, a bordo del suo Condor dal nome “Nonsisamai”, mentre si usciva dalle dighe di Marina di Ravenna. Diciamo 18 anni fa. Io – che ancora veleggiavo sugli Optimist – ero rimasto incuriosito dalle vele in kevlar che facevano quello strano rumore di roba solida, e tutto potevo pensare tranne che quella cosa così dura potesse essere una randa. Lui aveva 8 anni in più di me, ma aveva già accumulato miglia e miglia di mare sotto gli occhi e tra i calli delle dita. Taciturno, sembrava un animale in gabbia, tanta rabbia da scaricare, ma lucido quanto basta per sapere con determinazione il destino da assegnare alla sua vita.
Poi lo rividi un po’ di tempo dopo. Diciamo 10 anni fa. Facevo parte di uno di quegli equipaggi improvvisati. Si partecipava ad una regata transadriatica. Capitan Bianchetti portava il Vitesse, vecchia di 10 anni, come un siluro e all’alba del giorno successivo la partenza della regata, tagliammo il traguardo abbondantemente primi. Trafficava spesso con barche vecchie, prese in prestito da amici, o – nella maggior parte dei casi – prese da amici di amici di amici, che – loro malgrado – dovevano garantire per lui. Avere una barca nuova? Manco per sogno – dove li trovo i soldi?! Gli sponsor sono duri da trovare, poi devi avere agganci sicuri, e soprattutto te li devi giocare bene. Ma Simone non scendeva a compromessi. Mai. O si fa così come dico io, altrimenti vaffanculo. Certo molti ce lo avevano mandato lui, a quel paese. Eccome. D’altro canto uno stinco di santo proprio non era. Risse nei bar, debiti insoluti…Ma un cuore grande come il Mare…e negli occhi - profondi, grandi - una determinazione mai vista in nessun altro sguardo.
Aveva un grande sogno, Simone. Lui voleva l’Oceano. Voleva navigare, voleva perdersi tra le onde del Mare. Cercava qualcosa, qualcosa che desse un senso alla sua vita. Nel Mare, Simone cercava se stesso.

É stato il primo marinaio italiano a partecipare e a portare a termine il Vendeè Globe, la Madre di tutte le regate. Parti da Les Sable D’Olonne – in Francia -
scendi verso l’Antartico. Ci giri attorno. E torni a Les Sable D’Olonne. Il giro del mondo. In barca a vela. Senza scalo. Tutto d’un fiato. Senza assistenza. Da solo. Diciamo in 4 mesi circa. Roba da malati di mente. Roba da malati di Mare. Roba da gente che si sente più a proprio agio in Mare che a terra. E lui si sentiva di gran lunga molto meglio in Mare che a terra…questo è fuori di discussione.
Poi ha concluso al terzo posto l’ Around Alone (cui aveva già preso parte anni prima, essendo, a 25 anni, il più giovane skipper mai iscritto a quella regata), sempre un giro del mondo in solitario, ma stavolta a tappe. Peanuts, in confronto al Vendeè. In effetti lui, con la testa, era già alla prossima edizione del Vendeè. Sembrava che la storia stesse girando al meglio. Finalmente uno sponsor serio, finalmente una barca competitiva…
Nel frattempo ovviamente numerose altre esperienze – la regata con i carretti a vela nel deserto della Mauritania, le mini Transat, le Rimini-Corfù-Rimini, la Route du Ruhm, la Solitaire du Figarò, regate vere se capisci cosa voglio dire… tutte rigosamente seguite su internet oppure sulla Gazzetta dello Sport, aprendo sempre il giornale a ritroso dall’ultima pagina, perché le notizie più belle sono quelle che scopri in fondo, tra le previsioni del tempo.
Il destino – o chi per lui – non gli ha nemmeno concesso l’onore delle armi - disperso tra i flutti - riservato a gente del calibro di Joshua Slocum o –più recentemente – Eric Tabarly.

Simone se n’è
andato, a 35 anni, mentre era in una barca di amici - non la sua, Tiscali - nel porto di Savona. Oggi sono 4 anni dalla sua scomparsa.
Con lui se n’è andata un po’ quella poesia e un po’ di quella speranza che ognuno di noi ha e che ognuno di noi nutre, che a volte i sogni possono davvero diventare realtà. Che un ragazzino malato di Mare può davvero, forse, farcela e arrivare a parlare a tu per tu con l’Oceano, a Lui confidando desideri, sussurrando segreti, dedicando poesie…

Adieu Capitan Bianchetti. Forse non lo sai. Ma a qualcuno di noi manchi ancora molto.

venerdì 22 giugno 2007

The chemical beat

Il chemical beat è quello che senti dentro, all’altezza del petto, quando hai davanti due torri di altoparlanti che ti sparano dei bassi così profondi che ti tremano i peli della braccia. A differenza del precedente concerto nel capoluogo lombardo, questa esibizione dei Chemical Brothers – 15 giugno 2007 - è stato davvero uno spettacolo. Mi ero spesso chiesto che spettacolo potesse mai essere vedere due ragazzi che su un palco enorme pigiano tasti qua e là, dietro ad una consolle e davanti ad un armadio pieno di spie luccicanti di cui non disponeva neanche il Comandante Spock in Star Trek. Ebbene ora posso dire che i principali motivi sono: 1) un posto dove fanno 2 ore e mezza di chemical muzik non lo trovi con facilità 2) un posto dove ci sono 5000 persone che ballano tutte quante come in una colossale discoteca all’aperto è per me una novità 3) i pirotecnici e folkloristici movies che scorrevano sullo schermo gigante alle spalle del brit-duo avevano un effetto ipnotico che non ho avuto bisogno di altro per stordirmi… 4) non so cosa scrivere al punto 4.
E poco importa se durante la giornata un temporale aveva fatto sì che il prato dell’ Idroscalo fosse quasi un pantano, tanto che dopo 10 minuti di salti smodati, sulle scarpe si fosse incollato tanto fango che i piedi mi pesavano 5 chili più del normale…. a me bastava guardare quei due sul palco – che per me erano Alex e Franz d’oltre manica…davvero sembravano loro! – per sorridere e ricominciare a muovere l’anca e tutto quello che c’è attaccato. A tratti facevo fatica a vederli, a dire il vero… le basse frequenze mi entravano dentro e facevano andare in risonanza le mie retine, per cui vedevo tutto come se fossi stato preso da un delirium tremens… altro che storie, la nuova droga si chiama subwoofer.
Comunque. La cosa che mi colpito più di tutte è stata di sicuro questa: alla fine del concerto sul maxi schermo appare una scritta che dice LOVE IS ALL.
Ora.
In condizioni normali avrei pensato, oh che carini, l’amore è tutto, sissì, è vero, chebbello, bravi bravi bravi.
Ma.
Io non sono in condizioni normali. Ora. Per cui quella frase l’ho metabolizzata. La parola amore è sul maxischermo. L’amore è sul palco. L’amore è in quelle scarpe appesantite dal fango l’amore è la musica elettronica l’amore è il cielo stellato di quella e di una qualsiasi altra serata. L’amore è tutto. Ed è dappertutto. Solo che a volte non si vede, si traveste, si camuffa, si prende gioco di noi. In realtà c’è, è lì che ci guarda, ci osserva. Poi a volte si fa avanti, a volte no, certe volte a te sembra un’ altra cosa, ma in realtà è lui. Sembra che non lo vogliamo, ma ne abbiamo bisogno, lo evitiamo, spesso, ma ne siamo dipendenti. Serve, funziona, si sta meglio, anche se a volte sembra che faccia male.
Ma.
C’è qualcuno che sa dirmi cos’è? Non chiedo tanto... solo che qualcuno mi si avvicini e me lo spieghi...che mi faccia degli esempi... che mi faccia capire l’effetto che ha, anche se so già che è impossibile. Eppure basterebbe così poco…. basterebbe lasciarsi prendere. Ma questa è un’altra storia.

venerdì 1 giugno 2007

VLC

Dicono che maggio sia il mese migliore per viaggiare, ma la verità è che ogni luogo che visiti per la prima volta ha il suo bel fascino. La città spagnola per esempio mi avrebbe fatto impazzire anche ad novembre, quando verso le 18.00 i mercanti di porcellane di Plaza de la Reina iniziano a sparecchiare i loro banchetti fatti di piatti e vassoi e oliere e mestoli e bicchieri per tornare a spingere il carretto. E che dire invece di agosto, quando gli studenti si radunano sotto le ampie volte bianche e fresche della Ciudad de las Artes y las Ciencas, magari con i piedi ammollo nelle basse piscine, il tutto frutto dell’estro della matita di un Calatrava, nome che si addice forse più ad un ingegnere che ad un artista. E invece Valencia mi ha fatto impazzire a maggio, quando le strade del centro si colorano di verde e di arancio a causa degli alberi e dei loro frutti, che magicamente riescono a brillare in un ambiente così innaturalmente antropizzato. Quando , arrivato alla fine della Avenida del Puerto ad una certa ora ti volti e vedi il sole che una precisione giapponese si va a infilare tra le due sponde del viale creando un gioco di luci e ombre e volumi degno di un Caravaggio. Quando gli equipaggi delle quattro barche sfidanti rimaste della Luis Vuitton Cup (lasciapassare per sfidare Alinghi nella Coppa America) rientrano alle loro basi con il sale sulle labbra pensando che il mare qui è salato ma che tuttavia la vita senza sale non è la stessa cosa. Quando la sera ha il profumo d’estate e la mattina profuma di sole già alto e ti svegli senza dover necessariamente pensare a qualcosa. Quando in metropolitana vedi i giovani che vanno verso il mare con i loro zaini, e scorgi un ragazzo che bacia le labbra di una ragazza nell’ultima fila e vedi lei che subito abbassa lo sguardo con imbarazzo e desiderio, lo capisci dai suoi occhi. Quando prendi una bici e percorri tutto il parco ricavato dall’alveo del fiume che passava per la città. Inoltre mi ha fatto impazzire a maggio, quando avrei dovuto assaggiare la paella valenciana e invece me ne sono dimenticato, quando avrei dovuto vedere almeno la bacheca dove viene custodita la Coppa America e invece me ne sono scordato (tra l’altro passandoci di fianco più volte al giorno, mentre deambulavo nel porto)… Foto.

domenica 27 maggio 2007

Slava

Mstislav si avvicina con passo incerto. Fa fatica è chiaro, si vede. Cammina a stento, tiene una sedia in mano, anzi si può dire che quasi la trascina. Una volta arrivato appoggia la sedia per terra. Con calma. Si ferma un attimo per riprendersi. Si appoggia con le mani sullo schinale. Respira. Poi si volta e si allontana. La gente lo segue con lo sguardo. Poi guardano tutti la sedia. Mstislav si perde tra la folla, ma poi riappare. Questa volta trascina una grande custodia nera. Ha una stringa delle scarpe slacciata, Mstislav. Si siede sulla sedia, la grande custodia nera ora è appoggiata per terra di fianco a lui. Prende un respiro. Si china apre la custodia e ne tira fuori un violoncello di ebano mai visto prima. Prende l’archetto. Richiude la custodia con un piede. La gente si avvicina, da dietro spingono. Si sentono le voci degli altri in lontananza, qualcuno canta, qualcuno ride, qualcuno lancia dei fuochi artificiali. Mstislav si concentra, appoggia il manico sulla spalla sinistra, alza in mento due o tre volte per trovare la posizione più comoda. mano sinistra sui tasti, braccio destro che fa un giro largo per avvicinarsi allo strumento e appoggiare l’archetto alle corde. Immobile con l’archetto sulle corde, Mstislav pensa. Mstislav sogna. Mstislav corre come correrebbe un bambino in un campo di grano alla fine dell'inverno. La gente trattiene il fiato. Poi inizia. Bach. Bach resuscita in questo preciso istante e risorge dalle corde del violoncello suonato da Mstislav “Slava” Rostropovic. Crome si susseguono a ritmo cadenzato, gighe e fughe agitano il braccio destro di Mstislav e le dita della mano sinistra di Mstislav. É un segno di libertà. É un segno di pace. Bach ambasciatore di uguaglianza. L’ undici novembre 1989 il più grande violoncellista dei nostri tempi suonava Bach davanti al muro di Berlino, che stava per essere abbattuto sotto le sue note. Гудби, Slava.

lunedì 7 maggio 2007

Occhi

Se sei fortunato trovi posto in prima fila. Se sei fortunato. Oppure se sei sfortunato. Dipende dai punti di vista. Per qualcuno è il posto migliore che ci sia su un aereo, tanto spazio per distendere le gambe. Per altri è un via vai di gente che ti fa venire il nervoso. Gente che sosta a un metro da te prima di andare in bagno. Gente con uno strano camice che imbastisce banchetti o bancarelle improvvisate. Gente che si spara tutto il corridoio per arrivare in fondo e chiedere «Scusi a che ora arriviamo?» o altre stupidaggini del genere. Una volta mi sono beccato un passeggero entrato nel bagno con la mano sul ventre con un imbarazzo tale da liberare nell’aere qualche germe con spiccata attività anaerobica (oltre che con particolare attitudine alla diffusione) arrivando fino alle prime file. Al che, rivolgendomi verso il mio temporaneo compagno di viaggio dissi «This oughtta be english food. Italian food would smell much better…». Lui – britishman, of course - mi rispose con un sorriso imbarazzato. Comunque. Volevo dire. Se ti capita di stare in prima fila e vuoi passartela un po’. Prova a concentrarti sulle due hostess. In particolare quando sono costrette a sedersi di fronte a te durante il decollo e durante l’atterraggio. Di solito sono una senior e una junior. L’ultima volta le mie amiche di viaggio si chiamavano Ulrike – la senior - e Ana – la junior. Ana aveva i tratti somatici tipo indiani. Molto giovane, forse 20. Con un rossetto rosso fuoco decisamente fuori luogo. Un po’ sfigata, a dirla tutta, con i collant troppo grandi per lei. Ma per questo simpatica. L’altra – Ulrike – aveva l’aspetto teutonico. Occhi azzurri, bruttina, un po’ antipatica – e certo il suo nome non l’aiutava. Sedute di fronte a me la senior parlava alla junior. Ana ascoltava e annuiva. Guardava fuori e annuiva. Incrociava il mio sguardo e guardava fuori. Ulrike parlava come se si stesse rivolgendo allo specchio. Tu scegline una. Fissala negli occhi. Perchemmai dovresti guardare il quadro con la cornetta del telefono sulla parete alle loro spalle, oppure lo scaldavivande nell’angolo opposto, oppure il tastierino con 5 cifre sulla porta di accesso alla cabina di pilotaggio quando puoi divertirti giocando e guardando diritto negli occhi una persona che con ogni probabilità non rivedrai mai più? Di solito il primo incrocio di sguardi passa più o meno liscio. Ma se tu insisti e i suoi occhi sorprendono ancora una volta i tuoi, allora il gioco ha inizio. Nella maggior parte dei casi l’altra persona cercherà di fissare un punto vicino alla tua testa, in modo da dare l’impressione di accettare la sfida anche se in realtà sta solo guardando il finestrino accanto a te, per dire. Per farti capire «Guarda che ti tengo d’occhio…». Si aspetta naturalmente che tu inizi a dedicarti al libro che tieni stretto tra le mani, oppure che tu cada tra le braccia di Morfeo. E invece. Invece fai un giro dell’abitacolo fissi tre o quattro punti decisamente inutili. Guardi l’orologio con il barometro che passa da 1014 – a terra - a 780 – a diecimila metri - millibar e pensi che 230 millibar di differenza di pressione in 15 minuti non sono male. E poi, come un’ ape sul suo fiore preferito, ritorni a posarti su di lei. E allora lei non può fare altro – morsa dalla curiosità – di vedere se la stai guardando ancora. E tre. Se tu avessi pietà, ora potresti anche smetterla. Se lei fosse davvero fortunata, si spegnerebbe il segnale delle cinture allacciate. E se tu fossi veramente sfigato, la hostess inizierebbe a intrattenere conversazione con il tuo vicino di posto.

giovedì 26 aprile 2007

Una lepre

Ieri ho visto una lepre. Ero a passeggio con il mio cane, in collina. L’occhio mi cade sulla base di un albero, dove il robusto tronco si incontra con la terra arida e donatrice di vita. Era giù nella scarpata. Ai piedi dell’albero stava un pezzo di legno. Era di colore bruno chiaro. Sembrava rettangolare, aveva le striature più scure, alcune erano nere. Ma aveva una forma strana. Era troppo regolare. E poi che ci fa un pezzo di legno proprio lì? Bhò. Vabbè, vado avanti. Poi mi fermo. Mi dico no, non può essere un tronco. Torno indietro. Mi pare ora di scorgere una specie di orecchio lungo, ma aderente al corpo di legno. E poi una specie di roba rotonda nera, che con un po’ di immaginazione poteva essere un occhio. Immobile. Era assolutamente immobile. Ho provato a cogliere un movimento, il battito del cuore, un respiro. Niente. Il mio cane nel frattempo torna indietro e mi si avvicina scodinzolando come per dire dai andiamo, portami ancora un po’ più a monte. Il mio cane si ferma. Il mio cane capisce. Il mio cane punta gli occhi dove li stavo puntando io. Pam. In meno di un secondo la lepre fa uno scatto parte a razzo si allontana a scheggia e si dirige verso il bosco il mio cane parte anche lui come un centometrista al suo inseguimento vedo i due corpi che si allontanano da me mi rimangono impresse le zampe posteriori della lepre e le zampe posteriori del mio cane entrano nel bosco ora non si vede più né lepre né cane ma si sente il rumore di bosco rumore che capisci che sta succedendo qualcosa rumore di foglie è come poter seguire la scena capisci esattamente dove sono quei due anche se non li vedi.Dopo un po’ il rumore torna indietro ed esce dal bosco. É il mio cane che torna con la lingua a penzoloni e con la lepre negli occhi e nella mente, chissà come se la stava immaginando, magari grondante di sangue tra i suoi denti. Mi abbasso per accogliere il mio cane. Sorrido. Gli dò una carezza sul muso. «Testina di vitello», gli dico. E sorride anche lui.

giovedì 19 aprile 2007

Scena del delitto

«No davvero, non so come sia potuto succedere, mi dispiace, è avvenuto tutto così in fretta non ce ne siamo neanche accorti eravamo lì che ci divertivamo e alla fine…. ma giuro che non l’ho fatto apposta, è successo così, senza un motivo preciso, senza una ragione spiegabile, mi dispiace, davvero mi dispiace…»
É successo venerdì sera. Dopo tanto tempo finalmente mi incontro con il mio amico che non vedevo da tanto tempo. Lo raggiungo al bar, dove ha avuto il tempo di bere qualcosa nell’attesa che io mi presentassi. Mi sono presentato. Abbiamo fatto due chiacchiere, ordinato due negroni, bevuto i negroni, appoggiato i bicchieri che contenevano i negroni al banco. Eravamo entrambi raggianti, lui che mi raccontava della sua tipa nuova e io che narravo le imprese della mia auto nuova fiammante. Bella storia, ci pigliava davvero bene. Poi due vecchi amici che ne hanno passate tante insieme e che poi si ritrovano dopo mesi e mesi… ogni volta è una festa.
Chessifà, si va all’osteria? Si va all’osteria. Parole a fiumi, congiunzioni a non finire, mani che gesticolano, mani che afferrano il bicchiere e mani che afferrano bottiglie e baci dati al bordo del bicchiere come alle labbra di una donna. Insomma la serata scorre come il nostro sangue nelle vene. Sostituiamo il vuoto con il pieno, ma restiamo sul rosso.
In un istante i suoi occhi si spengono e contemporaneamente le mie pupille si dilatano. Oh-oh. Ora come lo porto a casa? 110 chili di alcool da indirizzare verso la strada giusta. Vabbè proviamoci. Infilo la mia spalla sotto la sua ascella. Usciamo dall’osteria giriamo a destra anche se quello che rimane del suo cervello spinge per andare a sinistra. Arriviamo a tentoni all’auto, lo caccio dentro e parto. Ci fermiamo davanti a casa sua lo estraggo di peso dal sedile. Questo è quello che ho cercato di fare, ma invano, dato che ormai si trattava di un cadavere senza iniziativa (come tutti i cadaveri, d’altronde). Ma il cadavere si sveglia si alza e si appoggia all’auto. Fa un passo verso il cancello ma non ce la fa cade per terra e mi tira giù con lui. Lo rialzo di peso – non credevo di riuscirci… Dove sono le chiavi? Eh? Dai, dimmelo, dove sono le chiavi? So che di solito le tenete nel giardino dimmi dove sono. I suoi occhi sono puntati verso l’Alaska, però riesce a farfugliare qualcosa come “MGNA...FAN…GULO”. Ok, capito, me le devo cercare da solo. Infilo la mano in tutti i vasi del giardino ma non trovo nulla. Torno da lui e ripeto dai dove sono le chiavi dobbiamo andare a fare la nanna non vuoi fare la nanna? In un’ottica di risparmio delle risorse, stavolta più semplicemente alza il dito medio e me lo indirizza con un sorriso storto. Occhei allora decido di portarmelo a casa mia. Santamadosca. Porcadiquellapuzzola. Scenetta come da copione: lo spingo in auto arriviamo da me, lo convinco a rialzarsi, si appoggia all’auto poi fa un passo e vrom di nuovo tutteddue per terra santamadosca. Lo trascino in casa e lo butto sul mio lettone. Gli sfilo i pantaloni e lo abbandono nella stanza. Manco per idea. Si alza, sbatte di qua e di là e mi costringe a rientrare. Ora ha le mutande infilate nel collo. Lo ributto sul letto, gli intimo di dormire e chiudo la porta. See magari. Di nuovo si rialza. E allora ok, lo porto in sala e lo butto nel divano letto. Dato che proprio ci tieni ora dormi di qua. Miracolo. silenzio. Allora mi infilo io nel mio lettone. Dopo 30 minuti un suono acquoso mi fa venire un orribile presentimento. Mi alzo, vado di la e mi si presenta la scena che vedete nella foto e il rosso NON è sangue. L’unica cosa positiva è che almeno sta dormendo. Vomita dormendo. Fantastico. Vorrei poterlo fare anche io. Così almeno mi evito il disgusto. Torno a letto e cerco di dormire. Sono le 3.45. Dato che però la notte è ancora giovane, tante cose possono accadere. E infatti dopo 15 minuti la porta della mia stanza si apre, e vedo la sua sagoma in maniera molto distinta: è completamente nudo (ha solo i calzini) mi sorride e ha intenzione di infilarsi nel mio letto, probabilmente urtato dal fatto che qualcuno gli abbia imbrattato in quel modo così maleducato il letto che gli era stato assegnato. Puzza talmente che la puzza si rifiuta di seguirlo, e infatti lo precede. Gira attorno al letto e si infila sotto le coperte senza proferire parola. Ora, dovendo io scegliere tra alzarmi dal mio letto e andare a dormire in un materasso zuppo di bile e invece restare nel mio letto…. bhè, la scelta è praticamente obbligata. Sul bordo del letto, come Eta Beta sul pomello, mi addormento…
Ovviamente il materasso è finito nel cassonetto la mattina successiva.

martedì 10 aprile 2007

Primavera

Tepore.
Luce.
Sole aria. Cinguettio degli uccelli alberi che sussurrano segreti al vento gatto che si rotola al sole cane che scodinzola profumo di bucato al vento foglie colte da fremiti ombra sull’erba luce sull’erba api che si imbrattano dei semi di un pistillo legno che scricchiola topolino che si desta futuri fiori fluttuano pupilla che si contrae nuvola in navigazione verso nord argilla si scalda insetti che copulano alito di mammifero maternità di giovane gatta uno stelo si piega aria da sud cibo in arrivo acqua sgorga da antica fonte finestra si apre fuoco discreto uomo che cammina uomo che non cammina rododendro che si schiude gladioli in fila rosa che ancora non ne vuole sapere perché fa ancora troppo freddo e io il mio dovere l’ho già fatto un mese fa tulipano che invece soffre di eiaculazione precoce e ha già fatto tutto quello che doveva fare e ora se ne torna nel suo bulbo fino a nuovo anno nuovi rami che si protendono al cielo su albero ormai stanco tortora deterge penne che abbelliscono ali che accarezzano vento che ringrazia e continua nella sua danza che

domenica 1 aprile 2007

British Beagle

Metti che una mattina ti svegli. Ti fa male la schiena e sei stanco: hai dormito per 30 minuti, per di più steso su un pezzo di legno. É freddo, e molto umido. La testa ti gira. Poi ti accorgi che in realtà non è la testa a girarti, ma tutto ciò che c’è intorno. É buio pesto. Sono le 3.00 del mattino. Maccheccavolo, ma non me ne potevo restare tranquillo? Ti accorgi di non avere il pigiama, eppur sei vestito pesantemente. Cerchi di alzarti, perdi l’equilibrio, ricadi sulla tavola, ti rialzi e fai presa con la mano ad una maniglia. Prendi la caffettiera, la apri, la riempi di acqua e di caffé. La piazzi sul fornelletto, la blocchi e accendi il fuoco. Ti strofini le mani e aspetti. Guardi fuori. E lo vedi. E lui è lì che ti guarda. C’è sempre stato. Ti giri verso poppa, guardi fuori e vedi il tuo amico seduto che guarda avanti. É rannicchiato. Deve avere un gran freddo. Le spalle ricurve, le gambe serrate, il collo praticamente inesistente. Coperto quasi da non riconoscerlo. Ma tu sai che lui ti ha condotto fin qua. É ora di dargli il cambio. Lo scoglio è ancora a 200 miglia. Tra un paio d’ore dovrebbe iniziare ad albeggiare. Un buon caffé caldo. É quello che ci vuole. Fa freddo. Dentro e fuori. Passerà ancora molta acqua sotto questa prua. Il vento è stabile. Filiamo a 5 nodi. Aspettaci, scoglio. Stiamo arrivando. Aspettaci, vita.

lunedì 26 marzo 2007

ConcertAir

Prendi Milano, l’Alcatraz e gli unici electronics performers d’oltralpe degni di nota. Il gruppo francese ha iniziato a suonare alle 2115 spaccate, quindi ci siamo persi le prime due canzoni, eh vabbè, pazienza. Le canzoni scorrono così come me le ricordavo da cd. Certo questo tipo di musica mal si presta ad eclatanti virtuosismi dal vivo. Si distingue, comunque, il batterista, represso, costretto a quattroquarti da primo anno di solfeggio. Insomma, il concerto stenta a decollare. Decidiamo per un negroni. Pessimo, decisamente troppo gin, imbevibile. OK, va meglio, il martinigincampari entra in circolo, i piedi iniziano a battere il tempo, gli occhietti iniziano a cogliere i dettagli. Le canzoni sono come da copione, abbastanza prevedibili… poche emozioni. Ma comunque l’atmosfera non è male. Il posto non è male, affianco a me tutti fumano e io non me ne ero neanche accorto… potenza degli impianti di aerazione. Belle le luci blu, rosa, rosse. Ecco, iniziano a darci dentro questi dannati francesi, finalmente un po’ di verve, un finale di canzone tirato…e poi… salutano il pubblico con la manina e si congedano. Dai, non fate i fenomeni, tornate fuori, si sente qualche coretto. E invece... e invece accendono le luci in sala, i tecnici iniziano a smontare l’attrezzatura e gli strumenti mentre gli addetti alla sicurezza avanzano dal palco con il nastro biancorosso da cantiere per fare sgombrare il locale. Da non crederci. Dopo 1 ora e un quarto di concerto, alle 2230 siamo già fuori dall’Alcatraz, in mezzo alla strada, io con ancora il negroni in mano (il secondo, quello che il socio mi ha passato con aria schifata). Disgustorama. Non acquisterò più il nuovo cd degli Air, anzi, me lo faccio masterizzare o peggio ancora lo prenderò alle bancarelle….

giovedì 22 marzo 2007

Iwo Jima

É trascorso un mese buono da quando sono andato a vedere il film di Eastwood, e chissà perché ancora ci penso. Ho sempre provato diffidenza - e lo faccio tutt’ora - verso film americani che trattano della guerra. Non sono affatto un cinefilo, ma forse l’unica eccezione è stata la bellissima pellicola “La sottile linea rossa” di Terrence Malick, nella quale, comunque, risultava ancora evidente il solito difetto dei registi d’oltremare. E invece. Stavolta si parla della disperata difesa giapponese dell’isola di Iwo Jima vista dagli occhi degli sconfitti – e per questo tagliati fuori dalla Storia. Il Generale Tadamichi Kuribayashi, ben consapevole dell’impossibilità di difendere l’isola contro l’imponente flotta statunitense, mostra il lato più umano dei Giapponesi, nonstante sia un abile e lucido stratega. Nel tentativo di mostrare che i sentimenti del soldato americano sono analoghi di quelli del giovane Saigo, forse Eastwood cade nella retorica . Però stupisce comunque vedere la leggerezza con la quale le due guardie stelle e strisce fanno fuori i due disertori nemici, terrorizzati dalla certezza della battaglia ormai persa.
“If our children can live safely for one more day it would be worth the one more day that we defend this island”.
Speriamo in altri film così.

martedì 16 gennaio 2007

1,2,3.

Uno, due, tre. Prova.
Uno, due, tre. Prova. Prova.
Forse quest’affare funziona. Non lo so. Neanche so se riuscite a sentirmi.
Ma se ci riuscite, ascoltate. E se state ascoltando, be’, allora quello che avete trovato è la storia di tutto ciò che è andato storto. Questo è il cosiddetto registratore di volo del Volo 2039. La scatola nera, come si dice, anche se è arancione. Dentro c’è un nastro metallico, cioè la registrazione incancellabile di quello che resta. Quella che avete trovato è la storia di ciò che è successo.
E proseguiamo.
Anche se faceste scaldare questo nastro fino al calor bianco, continuerebbe a raccontare esattamente la stessa identica storia.
Uno, due, tre. Prova.
Forse potrei inziare come Tender Branson (b.t.w.
© Chuck Palahniuk), che racconta la sua storia alla cosiddetta scatola nera dell'aereo sul quale sta ancora volando, incidendo parole immortali sul nastro del registratore. Già. Parole immortali. Sarà così? Oppure tutti i pensieri intangibili si perderanno, ancora un volta, nell'etere, senza lasciare traccia? Uno, due, tre. Prova.